Immaginate un ministro – nel caso specifico l’incaricato agli Affari regionali e alle Autonomie, Roberto Calderoli – costretto per settimane e mesi a seguire, quasi sempre silente, una raffica di audizioni parlamentari dove studiosi di diritto costituzionale, associazioni di categoria, sindacati, centri studi letteralmente demoliscono la sua riforma detta dell’autonomia differenziata.

Immaginatelo serafico subire una batteria di critiche di metodo e merito che si traducono in una bocciatura senz’appello. Salvo che il ministro e il governo paiono voler procedere spediti senza dar troppo peso a quella valanga di obiezioni. Perché accade? Provo a rispondere con qualche telegramma. Il primo è questo. In tutto il mondo occidentale non esiste un solo partito di governo che metta in discussione la natura dello Stato nazionale. Non accade neppure dove lo Stato è una federazione di nazioni o di nazionalità diverse (come nel caso degli Stati Uniti o della Svizzera). Ridotta all’osso, l’opposizione al progetto della destra nasce qui. Il tema non è lasciare a loro la bandiera dell’autonomismo. Quello rimane un principio saldo della nostra cultura istituzionale. Un valore coltivato nel tempo e scolpito nel suo profilo di sussidiarietà dalla Costituzione del ’48. Lo scontro politico di adesso ha una natura diversa. Con una destra che nella miscela tra forma dello Stato (l’autonomia differenziata) e forma di governo (il premierato) punta a una rivalsa precisamente nei confronti di quell’impianto. Di più: punta a sradicare le radici storiche che quell’impianto hanno reso possibile. Il secondo telegramma si riferisce a quella storia. Come spiega Emilio Gentile, il nostro Risorgimento aveva tre obiettivi. Liberare l’italiano dalla servitù del dispotismo (dal piede dello “straniero”), conferirgli una nuova dignità come cittadino di uno Stato nazionale, affermare le capacità dell’individuo contro il privilegio di nascita e di casta. Era un’aspirazione che si sposava al sentimento del bene collettivo e che molto più tardi sarebbe divenuto il fondamento della cittadinanza repubblicana. Si trattava di una coscienza condivisa, se non dalla totalità, da una grande massa degli italiani? La risposta è no. A ben vedere quello è stato a lungo il sentire di un’avanguardia. E a confermarlo, ancora Gentile lo rammenta, il fatto che nel caso nostro non esiste il grande romanzo del Risorgimento (mentre i francesi hanno una letteratura epica sulla Rivoluzione, e i tedeschi sulla frattura romantica hanno edificato persino una filosofia). Noi abbiamo avuto piuttosto il grande romanzo dell’anti Risorgimento: quel Gattopardo dove tutto si doveva cambiare perché non cambiasse nulla. Grandissima epopea contrassegnata non già dal bisogno di risorgere, ma esattamente dall’opposto, un senso di caduta irrimediabile del vecchio mondo. Dunque, si potrebbe dire che contro il disegno di adesso concorrono non solamente la cronaca o ragioni tecniche, per quanto motivate. Contro questo tentativo c’è una intera parabola storica e culturale che ha segnato la costruzione unitaria dello Stato italiano. Comunque la si pensi, non è un tema da poco perché non ha a che vedere solo con un assetto di poteri e competenze, ma riguarda la stessa identità – il modo d’essere e di vivere la propria appartenenza – di un popolo. Unità Terzo telegramma. Per i primi 25 anni di vita della Repubblica il centralismo, inteso come rinvio del decentramento, è stato prerogativa della forza di maggioranza relativa. La Dc temeva che sul versante dell’iniziativa legislativa la carta del regionalismo allargasse il potere di quella sinistra rappresentata dal Pci e che non poteva avere accesso al governo del Paese. Una volta colmato il ritardo, però, si è compreso come anche quel processo poteva accelerare l’approdo a una democrazia più compiuta. Ma sempre con una consapevolezza che quelle classi dirigenti – di governo e di opposizione – avevano ben chiara. Ed era che l’Italia, nella sua non lunghissima vicenda unitaria, aveva sempre sofferto le stagioni segnate da élite della politica intente a dividere il Paese. Tra Nord e Sud. Tra le città e le aree interne. Tra le generazioni e stratificazioni sociali troppo rigide. Questo aveva influito sul tasso di crescita della nostra economia e sulla stessa coesione sociale. L’Italia anche negli indicatori economici e della produttività del sistema-paese è cresciuta meno e male con Crispi, col fascismo, con la destra di Berlusconi. Siamo cresciuti di più quando a guidare il Paese vi sono state élite più o meno illuminate, ma comunque consapevoli che uno Stato nato tardi e con un retaggio di storture (debole senso dell’ordine e delle regole, una corruzione diffusa, un familismo amorale) tanto più andava

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